mercoledì 20 dicembre 2017

Grand Canyon Skywalk-2



# 34

Ora è la volta dello Skywalk vero e proprio che deve essere realizzato a ferro di cavallo a sbalzo sullo strapiombo.
Sopra le fondazioni vengono preparati dei supporti removibili su cui viene montata la struttura.
Il telaio è costituito da travi in acciaio ricurve spesse 5 cm che vengono assemblate tra loro formando una struttura scatolare alta circa 2 metri e larga poco meno di 1.
Durante la realizzazione all’interno ci si può camminare, permettendo agli addetti di lavorarci e fare le ispezioni necessarie.
Lo scatolato, così composto, viene realizzato a doppio ferro di cavallo unito, di tanto in tanto, da traverse di acciaio che conferiscono maggiore stabilità meccanica al sistema.
Infatti fattori da non trascurare in questo ambiente sono la temperatura e il vento.
Sbalzi termici che vanno da temperature sotto lo zero a oltre 45 gradi causano dilatazioni importanti nei materiali.
Venti con velocità fino a 160 km/h in orizzontale e alcune decine di km/h in direzione verticale, ascendente o discendente, fanno temere oscillazioni, effetti di risonanza meccanica e di compromissione della struttura con conseguente rischio di caduta nel canyon sottostante.
Questo fenomeno di instabilità aerodinamica è conosciuto col termine di “Galloping”.

Un esempio famoso riguarda il “Narrows Bridge” a Tacoma, nelle vicinanze di Seattle.
Il 1° luglio 1940 venne inaugurato questo ponte stradale lungo 1840 metri e alto 135, sospeso sul canale a 60 metri di altezza.
Sebbene l’arcata principale, lunga più di 850 metri, fosse stata progettata per resistere a venti anche di 180 km/h, fin dall’apertura si verificarono delle visibili oscillazioni della sua superficie nei giorni ventosi, al punto che venne soprannominato “Galloping Gertie”, ovvero dinosauro al galoppo, per via dell’effetto “montagne russe” che si percepiva quando lo si attraversava.
Il 7 novembre dello stesso anno un vento da soli 64 km orari provocò il fenomeno del “Galloping”.
In pratica, il vento costante a quella velocità fece oscillare e risuonare meccanicamente il ponte con movimenti via via sempre più ampi finchè collassò precipitando in acqua.
Un docente di ingegneria, che stava studiando il moto della struttura, riuscì a filmare anche il momento della caduta. 
Al di là dell’aspetto tragico e spettacolare della vicenda, che fortunatamente non causò vittime, escluso un povero cane intrappolato in un’auto, l’esperienza insegnò molto riguardo la stabilità delle strutture sospese e comunque esposte alla forza del vento.

Ai fini della stabilità, i progettisti dello Skywalk non si accontentano della struttura scatolare a doppio ferro di cavallo vincolata, ma provvedono ad installare dei dispositivi antismorzamento (damper) in caso di oscillazione della stessa.
Terminato l’assemblaggio si passa alla verifica delle saldature per mezzo dei raggi X.
A questo punto si procede con la posa del pavimento.
Per rendere la struttura mozzafiato si pensa di costruirla trasparente, in modo da dare veramente l’impressione di camminare nel vuoto.
Il pavimento è costituito dalla sovrapposizione di 5 strati di vetro, per un totale di 8 cm di spessore, incollati fra loro con un composto capace di migliorarne la trasparenza.
Ogni pannello, largo 1,2 metri e largo 3, pesa più di mezza tonnellata ed è calcolato per resistere ad un peso di 488 kg per metro quadro, equivalente a circa 800 visitatori complessivi.
L’accesso tuttavia sarà consentito a 120 visitatori per volta, quindi la sicurezza è rispettata.
Il posizionamento di ciascuna lastra avviene su un cuscinetto in schiuma assorbente atto a compensare i movimenti delle travi di supporto e va a sostituire un pannello provvisorio di acciaio, preventivamente posizionato per evitare che nuove flessioni della struttura scatolare portante, a causa del peso aggiunto di volta in volta, possano danneggiare le lastre di vetro già sistemate.
Anche il parapetto ricurvo viene realizzato in vetro: alto 160 cm garantisce la sicurezza, permette di guardare attraverso senza dare l’impressione di camminare in un ambiente chiuso.
Terminata anche questa fase lo Skywalk è pronto per essere traslato orizzontalmente nella locazione definitiva, sul vuoto.
Il telaio viene sollevato dai cavalletti provvisori per le saldature e collocato su martinetti idraulici mobili.
Usando un sistema di pali in ferro circolari, sui quali scorrono i martinetti e 2 argani montanti su camion, la struttura da 500 tonnellate viene spostata lentamente oltre il bordo del canyon, bilanciando il peso man mano che lo Skywalk si sporge verso l’esterno.
La posizione finale, 21 metri oltre il bordo, viene raggiunta in 2 giorni.
Manca ancora il fissaggio che avviene abbassando i martinetti, posizionando la struttura sulle sue fondamenta e saldandola agli 8 pilastri affioranti dal suolo.
Nel marzo 2007, dopo 2 anni e mezzo di lavoro e 30 milioni di dollari, arriva il momento della cerimonia di apertura: il capo spirituale degli Hualapai benedice lo Skywalk e  i componenti della tribù, progettisti, esecutori, personalità pubbliche e autorità, camminano sul pavimento di vetro sospeso nel vuoto.
Pochi giorni dopo la struttura viene aperta ai primi visitatori.
Anche se l’accesso è regolamentato per motivi di sicurezza ed è vietato portare con sé attrezzatura fotografica e materiale che, cadendo, potrebbe danneggiare il pavimento di vetro, resta sicuramente un’emozione unica, un luogo, come desiderato dalla tribù degli Hualapai, dove si può volare con le aquile.






Fonte : National Geographic.


venerdì 24 novembre 2017

Grand Canyon Skywalk



# 33


Se dovessi definire in due parole cos’è il Grand Canyon Skywalk direi che si tratta di una gigantesca opera di ingegneria umana sospesa su una delle più grandi opere della natura, costruita con il duplice scopo di sostentare economicamente gli Hualapai e di far conoscere al mondo le potenzialità del West Rim del Grand Canyon del Colorado.
Tuttavia non si può parlare dello Skywalk senza fare qualche accenno agli Hualapai.
Gli Hualapai sono uno dei tanti popoli nativi americani, tradizionalmente nomadi, che vivevano ad est del fiume Colorado fino a Flagstaff e occupavano un territorio di 20.000 km quadri.
Nel ‘800 furono decimati da continue guerre tribali e da malattie; i coloni bianchi occuparono progressivamente le terre in cui vivevano spingendoli verso nord in una riserva che fu costituita nel 1883.
Attualmente copre un territorio di 4.000 km quadri che si estende fino al bordo sud del canyon ed è identificata come la Nazione Hualapai.
Sempre alla ricerca di un equilibrio precario compreso tra la sopravvivenza in un territorio desertico e la volontà di mantenere la propria cultura e le tradizioni, gli Hualapai arrotondano i loro guadagni fin dagli anni ’50 esercitando attività come il rafting e il turismo sul West Rim.
Nel 1996 un imprenditore americano di Las Vegas di origini orientali, David Jin, si rende conto dell’enorme potenzialità turistica di quella zona; del resto proprio in quegli anni svolge la mansione di operatore turistico conducendo molti visitatori in quelle aree sperdute del Grand Canyon.
Jin propone agli Hualapai la costruzione di una nuova attrazione esposta sullo strapiombo del Canyon, con il pavimento in vetro, in modo che dia ai turisti la sensazione di volare sul precipizio e di vedere il panorama proprio come lo vedono le aquile durante il volo.
Il paragone non è casuale e infatti il luogo che viene proposto per la costruzione dell’opera è già conosciuto come “Eagle Point”.
Il nome, Punto dell’Aquila, proviene dal fatto che lì di fronte esiste un profilo roccioso che ricorda la figura di un’aquila in volo e per gli Hualapai questo sito è sacro perché credono che sia l’aquila a portare le loro preghiere a Dio.


All’interno della tribù si accende un intenso dibattito che contrappone da una parte coloro che propendono per la realizzazione dell’opera, consci del fatto che se funzionerà apporterà molti turisti e quindi del denaro indispensabile per la loro sopravvivenza futura e dall’altra i tradizionalisti che percepiscono l’ipotetica costruzione quasi come un oltraggio alla spiritualità del luogo e che non vedono di buon occhio un eventuale flusso incontrollato di “stranieri” nel loro territorio.
In aggiunta, vanno anche considerati l’impatto ambientale, perché il progetto deve integrarsi perfettamente con il luogo che lo ospiterebbe, la fattibilità costruttiva dell’opera, l’investimento economico e, non ultima, la logistica operativa.
Nel 2003 viene trovato un compromesso: il complesso sarà costruito nel rispetto totale delle tradizioni e senza alcuno stravolgimento ambientale; le discussioni arrivano alla conclusione e così parte il progetto.
Vengono fatti dei test alle pietre calcaree che dovranno sorreggere l’opera: confermano una resistenza alla compressione maggiore di quella di un normale calcestruzzo, ma sono anche presenti delle crepe verticali che partono dalla superficie con un andamento angolato verso l’esterno delle rocce e ciò sottopone il sito a rischio di caduta nel canyon sottostante.
Ad un centinaio di metri di distanza più a nord vengono eseguite nuove prove che stavolta evidenziano minori fenditure verticali, soprattutto angolate verso l’interno, che promuovono il luogo a base della struttura da erigere.
Il problema successivo da affrontare è la logistica.
Da qui la città più vicina è a 110 km di distanza, non ci sono né acqua né corrente elettrica; dovrà perciò essere trasportata ogni cosa, materiale da costruzione, gruppi elettrogeni, rifornimenti, viveri e tutto ciò che può servire in un cantiere, attraverso una strada sterrata esistente ma da adeguare, lunga 22 km.
Risolta anche questa difficoltà, il primo  ottobre 2004 gli Hualapai benedicono l’inizio del cantiere.
Poiché lo Skywalk sarà costruito direttamente sul luogo e non sarà ancorato all’esterno della roccia per motivi di sicurezza, si incomincia con le fondamenta.
Vengono preparati alcuni cassoni scavando nel terreno che saranno riempiti successivamente con cemento armato; inoltre ogni cassone contiene al suo interno dei micropali di acciaio da 6,5 cm di diametro profondi 14 metri.
A causa della durezza della roccia durante gli scavi si rompono molte punte diamantate, poi un buco per la fondazione incontra una frattura verticale che viene neutralizzata consolidando la roccia dall’esterno della parete del canyon con una griglia di tiranti fatti di tondini di acciaio.
Infine il tutto, cassone e micropali, viene annegato nel cemento armato insieme a due colonne d’acciaio per ogni cassone, queste diventeranno i punti di aggancio del telaio dello Skywalk.
Dopo 1 anno e mezzo di lavoro le fondamenta sono terminate e sono collaudate per un carico di 32000 tonnellate, molto al di sopra rispetto a quanto richiesto.










martedì 3 ottobre 2017

Il Grand Canyon West - Eagle Point



# 32

Riprendiamo la strada che sale lentamente, ma soprattutto vediamo che attorno a noi non c’è nulla tranne l’ambiente del deserto; i rari cartelli che troviamo ci confermano di volta in volta l’esattezza della direzione.
La cosa poi si fa quasi inquietante quando, ad un certo punto, la strada cessa di essere asfaltata trasformandosi in un largo e polveroso tracciato.
Non sappiamo dove siamo, ma siamo fiduciosi vedendo che davanti a noi alcune auto procedono nella nostra direzione.
Incrociamo anche dei “Caterpillar” adibiti alla movimentazione del suolo e capiamo che la strada per raggiungere la destinazione è ancora in fase di perfezionamento.
Dopo qualche chilometro finalmente torna il manto asfaltato e poco più in là un cippo ci indica che stiamo entrando nella Nazione degli indiani Hualapai e siamo al Grand Canyon West, buon segno: ora siamo davvero vicinissimi alla meta.




Non sappiamo ancora cosa ci attende, ma intanto notiamo che la strada diventa pianeggiante e in lontananza scorgiamo dei vuoti nella visuale che ci inducono a pensare che lì ci sia davvero il Grand Canyon.
Siamo elettrizzati mentre raggiungiamo un parcheggio, attorno al quale vediamo una pista aeroportuale ed elicotteri a terra.
La strada termina qui, abbiamo davanti a noi parecchio tempo per cui incominciamo ad organizzare i prossimi movimenti.
Ogni accesso ulteriore è sbarrato o non consentito, di conseguenza entriamo nel Visitor Center, cerchiamo di riordinare un po’ le idee e acquistiamo i biglietti per l’entrata.
Al banco vediamo solo Nativi Americani, di conseguenza immaginiamo che il tutto sia gestito da loro, del resto siamo nel loro territorio.
All’uscita, pochi minuti dopo, ci attende un pullman che carica i turisti, poi percorre un paio di chilometri durante i quali tutte le persone cercano di guardare fuori dai finestrini perché si intravede il Canyon, sempre più vicino.
Ad un certo punto l’autista ferma il mezzo e ci dà la possibilità di scendere.
Nel frattempo abbiamo compreso che i mezzi sono molti e compiono un percorso circolare e continuo; in conseguenza a ciò, è possibile fermarsi nella località tutto il tempo che si desidera e riprendere successivamente il percorso.
Eccoci arrivati a “Eagle Point”, percorriamo pochi passi e finalmente possiamo affacciarci sul Grand Canyon del Colorado realizzando un sogno che desideravamo da molto tempo.
Qui il suolo è costituito da terriccio rossastro e rocce pianeggianti che prendono il sopravvento mentre ci si avvicina al bordo.
In qualche punto alcune funi delimitano la zona da non oltrepassare, ma in altri non c’è nessuna protezione: solo la paura di cadere ti fa avanzare con estrema cautela nelle vicinanze dello strapiombo.
Insieme a noi, decine di persone si accostano al ciglio con prudenza perché, nonostante le vertigini, più ti avvicini al limite, maggiore è la visione della spaccatura del Grand Canyon e l’angolo di visuale dell’ambiente sottostante.
Da qui si gode di una vista unica, sia in larghezza che in profondità.










La natura ha fatto davvero le cose in grande: le rocce sono colorate a strati e il profilo irregolare del Canyon esaltano uno scenario che ha dell’incredibile.
La fenditura su cui ci si affaccia Eagle Point è una fra le tante appena laterale rispetto al percorso del fiume Colorado che si può vedere a poco più di un chilometro di distanza.
Esattamente sotto la nostra verticale invece, siamo a circa 1450 metri di altezza, ci sono una paio di centinaia di metri in caduta libera, poi il burrone degrada con una pendenza ripidissima fino al fiume Colorado che si trova circa 1200 metri più in basso.
L’altra sponda del Canyon è situata a 4 o 5 chilometri da qui facendo risaltare il paesaggio e tutta la potenza del fiume che nel tempo si è scavato così profondamente il suo letto.
In fianco a noi sorge il Grand Canyon Skywalk.





venerdì 8 settembre 2017

Direzione Grand Canyon del Colorado



# 31

Come ci siamo ripromessi la sera precedente, eccoci  pronti ad affrontare una nuova avventurosa giornata fuori Las Vegas.
Sono appena passate le 9 del mattino, abbiamo fatto una colazione leggera e saliamo in auto.
Il tempo è incerto, ma il caldo è sicuro per cui smanetto subito il condizionatore e si parte alla ricerca del Grand Canyon West.
Ripercorriamo la strada che solo ieri ci ha condotti alla Hoover Dam e in poco tempo la raggiungiamo; ora siamo in transito quindi non ci fermiamo un’altra volta, ma ci guardiamo attorno consapevoli del fatto che chissà se e quando capiterà un’altra occasione.
Entriamo in Arizona e, finite le curve per accedere alla diga, (ricordo che nel 2009 non esisteva ancora l’Hoover Dam Bypass) la strada US 93 prosegue dritta e noi celeri su di essa compatibilmente con i limiti di velocità, del resto il traffico è quasi inesistente e viaggiare è davvero un piacere.
Constatiamo quando sia incredibile la sicurezza di guida che deriva dal fatto di aver già percorso almeno una volta una strada, soprattutto in un ambiente sconosciuto e straniero: ci siamo passati solo il giorno prima e ci sembra di essere già diventati padroni della situazione.
In men che non si dica raggiungiamo la deviazione per Willow Beach e da qui in avanti, ancora una volta, diventa tutto nuovo.
Di colpo tutta la sicurezza che avevamo acquisita si affievolisce, ma incominciamo a tenere d’occhio i cartelli ricordando che il gestore del negozio di Willow Beach, dove ieri ci siamo fermati, ci aveva detto di proseguire per un numero imprecisato di miglia.
Secondo la carta geografica sappiamo che il Grand Canyon si trova indietro alla nostra sinistra per cui proseguiamo molto attenti alle eventuali strade che incrociamo in quella direzione.
La visibilità è estesa e continuiamo il tragitto; naturalmente non c’è nessuno a cui chiedere, visto che il territorio è desertico e non ci sono neppure paesi.
Siamo decisi a proseguire nella speranza che prima o poi troveremo qualche indicazione.
Abbiamo percorso una quarantina di chilometri da Willow Beach ed è trascorsa quasi mezz’ora guardando con estrema attenzione la strada, quando in lontananza, vedendo alcune case, si accende la speranza di chiedere informazioni a qualcuno.
Raggiunto il paese, prima ancora di trovare anima viva, vediamo un cartello turistico alla nostra sinistra che indirizza in quella direzione la via per raggiungere il Grand Canyon West, anzi, per essere più precisi, il Grand Canyon Skywalk.



Wow, di colpo due certezze: la prima è che lo Skywalk esiste e la seconda che siamo sulla strada giusta.
Il cartello ci dice anche che mancano “solo” un’ottantina di chilometri.
Non mi sembrano pochi considerato che probabilmente ci saranno anche strade di montagna, però, se tutto va bene, potremmo essere a destinazione attorno a mezzogiorno.
Intanto abbiamo già percorso più di 150 chilometri e, imboccata la nuova via che incomincia a salire, decidiamo per una sosta, anche con lo scopo di vedere e fotografare qualcosa dell’ambiente.
Scendiamo dall’auto e non solo fa caldo, ma il cielo è parzialmente coperto e le nuvole temporalesche in lontananza minacciano di rovinarci la giornata; sarebbe davvero il colmo trovare dei rovesci qui in mezzo al deserto, però sappiamo anche che la poca pioggia che bagna queste zone è più frequente proprio nei mesi di luglio e agosto.
Dal punto in cui mi trovo in questo momento decido di fotografare i due versi della strada: il senso che abbiamo percorso e quello che ci aspetta.
Si vede la strada formata da molti dossi e cunette e si percepisce pure, nonostante sia senza curve, che i cigli non sono sempre complanari fra loro; in altri termini non è certo una highway e durante la guida dovremo starci all’occhio.
Le case che costituiscono il paese sono a un piano e molto diradate fra loro, giustamente qui non manca sicuramente lo spazio, ma la comunità urbana, così strutturata, perde la propria identità e, più che un paese, sembrano tante case solitarie, tant’è che le caselle postali spesso sono collocate sul ciglio della strada.








Percorro pochi passi all’esterno della strada addentrandomi fra la vegetazione, giusto qualche metro perché naturalmente non esiste un filo d’erba verde, in compenso ci sono piante grasse e spinose in abbondanza e di varie taglie; vestito con i pantaloni corti non è molto furbo avvicinarsi.
Alcune sono anche molto belle e fiorite e subito mi fanno pensare alla difficoltà che a casa abbiamo per mantenerne una in vita, chissà, forse non avremo il pollice verde, ma il pollice nero :-)
Prima di risalire in auto, per non perdere troppo tempo e per evitare di incontrare qualche serpente velenoso fra la vegetazione, vedo e fotografo uno “Joshua Tree” (Albero di Giosuè).



Si tratta di una “Yucca brevifolia” tipica di queste zone che, vista soprattutto in controluce, rievoca che fu chiamata così dai primi Mormoni che attraversarono il deserto del Mojave per la sua somiglianza a Giosuè, con le braccia sollevate, nell’atto di pregare.


venerdì 28 luglio 2017

Paracadutismo ascensionale

A volte viene definito uno sport estremo, ma cosa c’è più di sicuro di essere agganciati ad un paracadute, percorrere una piccola corsa e alzarsi in aria partendo da terra grazie al traino di un motoscafo?
Credo che andare in bicicletta o in moto si corrano dei rischi maggiori eppure non è sempre così.
Leggevo lo scorso 13 luglio di un pensionato 71 enne australiano che ha provato per la prima volta approcciarsi con questo sport in Thailandia. Nel filmato si vede “l’istruttore” che lo veste con giubbotto salvagente e imbracatura, poi l’imbarcazione parte e i due, in pochi metri, si alzano dalla spiaggia verso il mare.
Non mi è chiaro se “l’istruttore” volesse salire anche lui, (così sembrerebbe dalle immagini) o se gli sia capitato suo malgrado.
Fatto sta che nel breve filmato si vede che i due uomini, sempre più in lontananza, salgono in alto molto in fretta.
Poi succede qualcosa, l”istruttore” sembra scavalcare l’imbracatura, per pochi istanti lo sportivo resta appeso malamente e infine precipita da una trentina di metri dentro l’acqua, ma forse su un basso fondale, trovando la morte.
Non è consolatorio sapere che “istruttore” e motoscafista siano stati arrestati né che si sia trattato di un errore nel fissaggio dell’imbracatura.
Certo è che cadere anche solo in acqua da una trentina di metri può essere mortale perché l’impatto avviene a più di 90 km/h e se non si cade più che in maniera perfetta, le conseguenze possono essere tragiche.
Ne sanno qualcosa i tuffatori estremi da scogliera, che pur allenati e capaci, raccontano che l’impatto con l’acqua da 27-30 metri non è mai piacevole.
Nella migliore delle ipotesi e cadendo nell’unico modo per non farsi male davvero cioè in piedi, assicurano che ti viene la sindrome del pinguino e cioè che quando esci dall’acqua i piedi ti fanno malissimo e quasi non cammini.
Se non entri in acqua perfettamente verticale è facile prendersi un violento colpo sotto al mento, figuriamoci con angoli anche leggermente diversi dalla posizione verticale.
L’articolo che ha raccontato l’episodio di quel bagnante australiano mi ha molto suggestionato perché mi ha fatto tornare a mente quella volta che, molti anni fa, provai anch’io l’esperienza del paracadutismo ascensionale, o parasailing.
Ero in vacanza in Corsica e mi divertiva l’idea di provare questo sport che ti permetteva di “volare” sul mare in tutta sicurezza a qualche decina di metri di altezza.
La preoccupazione più grande riguardava un eventuale sgancio della fune di traino ma, mi dicevo, su mai succedesse il paracadute mi accompagnerebbe dolcemente in acqua.
Così ruppi gli indugi e contattai il team del parapendio.
Mi chiesero se sapevo nuotare e mi dissero di stare tranquillo nonostante si stesse alzando un po’ il vento ed il mare cominciasse ad aumentare il moto ondoso.
Mi fecero indossare l’imbracatura e il giubbotto di salvataggio.
Legata al polso, posta fra il giubbotto ed il mio petto, fui autorizzato a tenere una piccola macchina fotografica subacquea che, se fossi riuscito, avrei estratto in volo per qualche foto ricordo.
Il motoscafo per il traino era in acqua e io sulla spiaggia; mi spiegarono che al momento del via io avrei dovuto cercare di resistere il più possibile alla forza di traino del motoscafo affinché la mia accelerazione, durante i pochi metri di spiaggia percorsi verso le onde, fosse massimizzata.
Questa la teoria, poi si passò alla pratica.
Mi fecero arretrare per tenere la fune in tensione il più possibile mentre due addetti tenevano il paracadute già aperto e gonfio.
L’istruttore, munito di walkie-talkie, comunicò l’ok allo scafista che diede i motori al massimo.
Cercai di resistere, ma fui subito strattonato in avanti e mi misi a correre.
Non percorsi più di 5 o 6 metri che già ero in aria e salivo veramente molto in fretta.
Dopo meno di un minuto la situazione era già ampiamente stabilizzata e così decisi di afferrare la mia macchina fotografica per uno scatto ricordo.
Non fu proprio un’operazione facile perché dovetti staccare una mano dal manubrio dell’imbracatura, naturalmente non correvo alcun rischio di cadere perché in quella situazione sei appeso al paracadute e la tenuta con le mani serve solo per essere stabili, poi dovetti estrarre la macchina fotografica e scattare una foto un po’ alla “bell’e meglio” senza riuscire troppo a guardare nel mirino.
La foto in questione è questa.




Tutto OK, mi stavo divertendo un casino, guardavo il motoscafo, piccolo laggiù, l’orizzonte, la spiaggia, insomma ne valeva davvero la pena.
Poi, come programmato, mi fecero scendere di quota rallentando il motoscafo.
Il  gioco prevede che ti facciano scendere lentamente fino a toccare l’acqua con le gambe mantenendo però il paracadute gonfio, poi, grazie ad una nuova forte accelerazione del motoscafo, ti risollevano e torni a volare.
Questa la teoria, ma la pratica andò un po’ diversamente.
Come dicevo, il motoscafo rallentò, raggiunsi lentamente il mare le cui onde, all’esterno dell’immediato profilo della costa, erano già abbastanza alte.
Le gambe si immersero, il bacino anche e ricordo che mi preoccupai, voltandomi, che il paracadute fosse ancora gonfio.
Ero in apprensione perché il motoscafo non si decideva a ripartire e l’acqua saliva.
Poi finalmente accelerò, ma ormai era tardi perché un’onda bagnò il paracadute che si afflosciò e così mi ritrovai completamente sott’acqua con i motori del motoscafo al massimo che mi strattonavano violentemente e mi impedivano di riemergere.
Questa situazione durò molti secondi, veramente interminabili, duranti i quali sentivo male in varie parti del corpo a causa dell’enorme resistenza all’acqua creata sul mio corpo dalla trazione del potente motoscafo.
Oltretutto, poiché l’aggancio dell’imbracatura alla fune di traino era all’altezza del petto, percepivo che durante il traino mi capovolgevo ruotando lateralmente.
Mi ricordo come fosse ora che pensai: ”Maurizio tieni il fiato più che puoi e non farti prendere dal panico perché si accorgeranno in fretta di quello che sta succedendo.”
Infatti così avvenne, sentii allentare la pressione dell’acqua ed emersi facilmente, stordito ma cosciente.
Sentii rumore di motori e vidi il mio motoscafo terminare di curvare e avvicinarsi per soccorrermi.
Alzai un braccio per far capire che ero cosciente e intanto vidi un altro motoscafo velocissimo che, seppur ancora lontano, si stava avvicinando a tutto gas puntandomi.
Ricordo che mi dissi: “ Accidenti sono ancora tutto intero, ora ci mancherebbe solo di essere travolto da questo.”
Pochi istanti dopo compresi che si trattava del guardiacoste che, avendo assistito da riva a quello che era successo, si era tempestivamente lanciato in un’operazione di soccorso, forse preallertato dal fatto che il mare in pochi minuti era diventato burrascoso.
Notai che erano tutti sollevati quando capirono che non avevo subìto conseguenze, fui aiutato a salire sul motoscafo, mi chiesero come stavo, se volevo andare all’ospedale.
Il mio scafista si scusò un sacco di volte e vidi che il guardiacoste lo ammonì.
Sbarcai a riva dove si era già formata una piccola folla.
Quando mi tolsero l’imbracatura mi spiegai il perché dei dolori.
Si stavano formando dei grossi ematomi alle ascelle e all’inguine che mi causarono postumi per il resto della vacanza, ma non m’impedirono di continuare il nostro giro in moto in Corsica.

http://video.corriere.it/pensionato-prova-parapendio-la-prima-volta-ma-l-avventura-finisce-tragedia/4dd05ffe-6797-11e7-b139-307c48369751