giovedì 28 aprile 2016

Come costruire la diga (Hoover Dam)



# 26

…Sopravvivere non è un termine esagerato se si considera che in quell’area d’estate si superano abbondantemente i 40 gradi (reali, non percepiti) e, per quanto concerne il lavoro, va considerato che non esistevano i sistemi di sicurezza attuali, infatti dalla fase di progetto fino alla realizzazione ultimata vennero contate 112 vittime.
Sulla pericolosità dell’attività si pensi ad esempio che i ripidi pendii del Black Canyon, dentro i quali scorreva il Colorado, dovettero essere preparati per supportare le pareti della diga.
A questo scopo una tipologia di operai, gli “high scalers”, (scalatori di quota) si calavano con delle funi lungo le pareti della gola, praticavano dei fori dove veniva inserita e fatta brillare la dinamite; lo scopo era di togliere le pietre pericolanti e mettere a nudo la roccia viva che costituiva il canyon.
All’inizio i dispositivi di protezione individuale erano assenti o, al meglio, consistevano in cappelli di feltro irrigiditi con la pece e solo successivamente venne introdotto l’uso di caschetti protettivi che comunque non erano sufficienti a riparare adeguatamente i lavoratori dai sassi in caduta.
Grazie a questo lavoro, la diga avrebbe avuto maggiore stabilità in funzione del fatto che la spinta, esercitata dall’acqua nel bacino a monte, sarebbe stata scaricata sulla roccia consolidata.
Fra i numerosi problemi che dovettero essere affrontati, ci fu anche la deviazione provvisoria del Colorado, che venne canalizzato per mezzo di 4 gallerie, in modo da lasciare provvisoriamente all’asciutto il letto del fiume.
Da qui incominciò l’erezione della diga vera e propria: il progetto prevedeva che fosse di tipo ad arco-gravità.
Questo criterio sfruttava il peso della costruzione stessa per renderla stabile sul terreno e la capacità di un arco convesso di potersi comprimere e scaricare sulle pareti delle montagne la pressione idrostatica esercitata dal lago.
Vista di profilo e all’asciutto, doveva assomigliare ad una specie di piramide, molto larga alla base, che si rastremava verso l’alto, generando però un allungamento ad arco sull’asse trasversale.
Un altro problema complesso da risolvere derivò dalla gestione dei più di 3 milioni di metri cubi di calcestruzzo necessario alla realizzazione.
Se da una parte la cifra in sé parla da sola, dall’altra nasconde il problema delle proprietà idrauliche del cemento.
Durante l’indurimento del calcestruzzo, il cemento che lo costituisce è soggetto a reazioni chimiche di idratazione che sviluppano calore.
Senza entrare troppo nei dettagli, (altrimenti si vedano i link riportati) nelle normali situazioni quotidiane ed ambientali, queste reazioni si ritengono esaurite in circa 28 giorni ed il materiale è pronto per ricevere il carico prefissato, ma qui molti parametri non erano consueti.
Si sa che il calcestruzzo è un cattivo conduttore di energia termica per cui, maggiore è il suo volume, maggiore è la difficoltà ad espellere il calore generato dalle reazioni chimiche e ancora, se la temperatura dell’aria circostante è alta, la dispersione avverrà più lentamente.
Gli ingegneri progettisti calcolarono che, in quel luogo e con quelle temperature, se la diga fosse stata costruita con una sola gigantesca gettata di calcestruzzo, ammesso che fosse possibile, ci sarebbero voluti più di 100 anni prima che il composto si stabilizzasse.
Peggio ancora, la “maturazione” esterna sarebbe stata più rapida di quella interna e questo avrebbe causato tensioni dentro al materiale, con rischi di crepe o rotture nel cuore della diga stessa.
Il problema fu risolto impastando il calcestruzzo con acqua fredda e facendo delle gettate in apposite casseforme, di non più di 15 metri di lato e di 1,5 di altezza, sul cui fondo venivano posati dei tubi dentro ai quali scorreva acqua refrigerata da appositi frigoriferi.
Al termine dell’indurimento la serpentina veniva sigillata e usata come armatura.
Con questo metodo si innalzarono 221 metri di diga dal 1931 al 1935, in anticipo di due anni sui tempi di consegna.





giovedì 7 aprile 2016

Cartoline dal lago di Como

Sono sicuro di essere in buona compagnia quando affermo che una delle prime “uscite” motociclistiche che si fanno partendo da Milano e dalle zone limitrofe, appena spunta il primo sole primaverile, sia quella di raggiungere il Lago di Como.
La tipicità della sua geografia e delle strade che si snodano non solo lungo la sua costa, ma anche sui rilievi montani attorno, ci regalano scorci di una bellezza apprezzata in tutto il mondo.
Oggi ho deciso di percorrere buona parte della Strada Regina (SS340) che, posizionata sulla sponda ovest, di pomeriggio permette di ammirare il lago con il sole alle spalle.
Mi sono prefissato di raggiungere una località, Breglia, che si trova 500 metri sopra al lago e quindi dovrebbe essere un buon punto di osservazione.
Terminata la Pianura Padana, da Como inizia il panorama: Cernobbio, Moltrasio, Laglio, Argegno sono i principali comuni che si incontrano e poi Tremezzo, località famosa  perché sorge Villa Carlotta.
Questa località è particolare anche perché si trova di fronte a Bellagio e da qui si scorge la fine del promontorio che costituisce il vertice del cosiddetto Triangolo Lariano; da questo punto in avanti il lago di Como si allarga perché si unisce al ramo di Lecco.
Proseguo lentamente in moto perché un occhio va alla strada e l’altro va al panorama, sempre bello e suggestivo; pochi chilometri ancora e si raggiunge Menaggio.
Da qui la strada sale rapidamente sul lago senza allontanarsi troppo da esso permettendo la visuale su panorami fantastici e unici.
Da dove sono ora, a circa un chilometro in linea d’aria, vedo una delle tante ville che ornano il lago; lo scorcio da questa posizione merita una sosta per vedere la costruzione: si tratta di Villa La Gaeta  che si trova in località San Siro.



E’ un castello di stile neomedievale del 1921 famoso anche perché utilizzato come set cinematografico nel finale del film di 007 Casinò Royale con Daniel Craig.
Risalgo in moto e proseguo, poco oltre vedo del fumo salire da dietro un crinale; deduco che ci sia un incendio nei boschi.
Pochi minuti dopo vedo comparire un elicottero antincendio da dove proviene il fumo, immagino che dovrà scendere fino al lago per approvvigionare l’acqua per spegnere l’incendio e intanto valuto che gli ci vorrà parecchio tempo (minuti) per spostarsi  sì di pochi chilometri, ma a quote di altezza differenti tra loro di molte centinaia di metri.
La strada continua a salire e i tornanti mi costringono a dedicare loro la mia totale attenzione.
Raggiungo la località di Plesio, famosa anche per la produzione dell’acqua minerale Chiarella e rivedo l’elicottero già rifornito di acqua in prossimità del fumo; ha fatto troppo in fretta a scendere e risalire per cui credo che si sia approvvigionato altrove.
Sono ormai vicino alla destinazione che mi sono prefissato quando vedo l’elicottero che sta tornando indietro per un nuovo carico, questa volta è vicino, sta volando a poche centinaia di metri da me ed è nella mia direzione: sono incuriosito.
Sto entrando nella località di Breglia e, ad un bivio, scorgo mezzi con i lampeggianti gialli in azione mentre il velivolo è sempre più prossimo.
Mi fermo, ho la macchina fotografica con me e vedo che è stata allestita la base di rifornimento di acqua per l’elicottero in un campo giochi in piano, ma non molto lontano da alberi.
Non capita certo tutti i giorni di osservare come funziona l’organizzazione di uomini e mezzi per spegnere gli incendi boschivi.
Mi avvicino a piedi per quanto è consentito e vedo che in mezzo al prato è stato montato un contenitore ottagonale bianco e rosso che viene riempito di acqua per mezzo di una bocchetta antincendio.
Ora l’elicottero è in mia prossimità, quasi immobile sopra la testa, ma il vento che provoca non m’impedisce qualche scatto fotografico e la ripresa di un filmato.
Lentamente scende e immerge il bucket (il secchio) nella vasca, lo riempie in pochi secondi e poi riprende quota, pronto per andare ad effettuare un nuovo lancio sull’incendio.
Il tutto viene eseguito con una precisione millimetrica tale, che mi fa pensare quanto il pilota sappia veramente il fatto suo e quante operazioni di questo tipo abbia svolto nella sua carriera per rendere così fluide e precise le manovre che sta compiendo.
Mentre l’elicottero si allontana parlo con un addetto della Protezione Civile che mi spiega che l’incendio, probabilmente causato da un mozzicone o da un fuoco acceso incautamente, non è molto esteso grazie anche alla velocità con cui è stato segnalato.
L’elicottero, mi spiega, effettuerà ancora un paio di lanci prima di terminare il suo lavoro.
Decido di stare lì a guardare e pochi minuti dopo assisto ad un nuovo riempimento del bucket e più tardi, come annunciato, l’elicottero termina la sua missione atterrando nel campetto.
A questo punto viene liberato dal bucket e riparte per l’eliporto.
Un fuoriprogramma decisamente interessante.










Riprendo la moto e mi inerpico su piccole stradine allo scopo di vedere i panorami che stavo cercando e che trovo subito dopo.
La vista sul promontorio di Bellagio e sui due rami del lago di Como da qui è eccezionale, come lo è la posizione, sul cucuzzolo della montagna, del Santuario della Madonna di Breglia.
Ancora qualche scorcio, qualche altro scatto, poi l’inizio della discesa verso l’epilogo di una giornata piacevole e istruttiva.