lunedì 21 marzo 2016

Imbrigliare l’oro bianco (Hoover Dam)



# 25

Stabilito che per ora dedicheremo la visita di Las Vegas in orario serale, resta da decidere la meta odierna fra le tante possibili.
Incominciamo dalle vicinanze: ad una cinquantina di chilometri da qui c’è la Hoover Dam, la prima diga che ha sbarrato il fiume Colorado.
Già nella seconda metà dell’800 il fiume Colorado con le sue piene causava notevoli danni alle popolazioni che abitavano attorno al suo letto e il controllo del flusso idrico avrebbe risolto il problema.
Solo dopo il 1920 la tecnologia, seppur rudimentale rispetto a quella odierna, permise lo studio per un progetto di sbarramento e di regolazione del flusso fluviale.
Lo scopo della costruzione di una diga era molteplice: prima di tutto sarebbe sì servita al controllo delle piene, ma anche all’irrigazione dei campi, alla navigazione per il trasporto delle merci; poi avrebbe avuto funzione di riserva idrica e di fonte di energia.
Inizialmente venne scelto un luogo più a monte dell’attuale, ma gli studi geologici dell’epoca evidenziarono che il posto si trovava nelle vicinanze di una faglia.
Venne identificato un sito più a valle, in territorio più sicuro, con il duplice vantaggio di ottenere anche un bacino idrico più capiente.
Tuttavia i problemi non erano solo di natura geologica o tecnologica, ma anche politici perché il Colorado segnava il confine tra Nevada e Arizona, però nell’orbita di interesse di questo fiume gravitavano anche i vicini stati della California, Utah con ripercussioni fino al New Messico, Colorado e Wyoming.
Il governo federale nominò un mediatore che aveva il compito di trovare una soluzione che mettesse d’accordo tutti gli interessi e a questo scopo scelse Herbert Hoover, che nel 1922 era segretario al commercio.
Quando fu trovato un compromesso iniziarono i lavori di progettazione.
In fase di progetto si cercò di contenere il più possibile i costi di esecuzione, ma successivamente prevalse l’idea che, trattandosi di un’opera faraonica, non sarebbe stato il caso di risparmiare sulla sicurezza.
Nel 1928, prima dell’inizio della costruzione della diga, avvenne il crollo della diga St. Francis, nelle vicinanze di Los Angeles, che causò centinaia di morti e danni astronomici.
Anche per questa ragione il progetto fu rivisto, vennero introdotte misure di sicurezza aggiuntive e ridondanze sull’affidabilità dell’opera.
I costi maggiorati furono legittimati anche dal fatto che si trattava di un’opera unica al mondo, la prima di quel tipo e quindi l’orgoglio di lasciare ai posteri una realizzazione così monumentale, praticamente indistruttibile, ebbe anch’esso il proprio peso.
Nel 1931 iniziarono i lavori veri e propri, ma già un po’ prima, migliaia di persone, soprattutto disoccupati rimasti senza lavoro dopo la crisi economica del 1929, si trasferirono attorno al sito di costruzione.
La località più grande nel circondario era Las Vegas che in quel periodo contava 5.000 abitanti; posta ad una cinquantina di chilometri in mezzo al deserto era tutt’altro che vicina e facilmente raggiungibile.
Anche il luogo dove sarebbe stata realizzata la diga, nel Black Canyon, non era per niente ospitale: strette pareti di roccia alte più di 200 metri non rendevano facile la movimentazione degli uomini, dei mezzi e dei materiali, per cui furono improvvisate tendopoli, alcune neppure autorizzate.
La costruzione dal nulla di una città che servisse da campo base e alloggi era stata contrattualizzata e pianificata tra governo federale e società committente, ma poiché i lavori della diga incominciarono un po’ prima del previsto, una parte delle maestranze, spesso con le relative famiglie, sopravvissero in qualche modo in attesa che il villaggio ufficiale, Boulder City, fosse concluso.



venerdì 4 marzo 2016

Il primo contatto con Las Vegas



# 24

Prima di tornare al racconto devo dire che questa esperienza risale al 2009, quindi è trascorso parecchio tempo e a Las Vegas il tempo corre molto veloce, al punto che può succedere che oggi costruiscano un albergo e dopo alcuni anni si decida di rifarlo per motivi vari: qualche carica di dinamite ben piazzata e boom.
Un’esplosione controllata, calcolata al millesimo di secondo e al grammo di esplosivo usato, spettacolare anch’essa al punto che non manca mai qualche televisione pronta a riprendere e trasmettere l’evento; poi l’edificio viene fatto implodere, le macerie sgomberate e di lì a poco un’altra costruzione lo rimpiazzerà, anche questo in fondo è show business.
Queste cose non sono fantasie, ma è quello che succede in una città particolarmente dinamica come questa, per cui ciò che scriverò riguarderà la mia esperienza personale avvenuta in quel periodo, una specie di fotografia scattata in quella data, raccontata anche con le parole, che forse in futuro diventerà una fra le tante testimonianze storiche.
Lasciamo l’autostrada e ci buttiamo nel traffico cittadino.
Forse sarà a causa della stanchezza e del caldo torrido, del clima talmente secco che neppure ti fa sudare tanto ti asciuga ma, nonostante sia ancora giorno e quindi le famose luci della città non diano ancora spettacolo, vediamo costruzioni immense, alberghi esagerati.
Pur senza prenotazioni, ci sistemiamo in fretta, è quasi ora di cena, ma prima decidiamo di prenderci un momento di relax, anche se intanto i pensieri in testa su come organizzare i prossimi giorni in cui soggiorneremo qui si accavallano.
Poi usciamo, senza auto perchè di strada ne abbiamo già percorsa parecchia, una passeggiata dovrebbe rilassarci un po’.
Quasi non ci crediamo: siamo sulla Strip di Las Vegas, ma il calore smorza subito l’entusiasmo.
39 gradi sono tanti, confidiamo sul fatto che tra poco il sole tramonterà e questo, soprattutto in un clima desertico, dovrebbe abbattere la temperatura.
Qui siamo lontani dal clima oceanico di Los Angeles o Santa Monica e il calore potrebbe fiaccare la nostra resistenza e condizionare la scelta dei luoghi.
Mentre camminiamo vediamo un centro commerciale, ci sembra una buona idea entrare pensando che l’ambiente sarà condizionato e, se sufficientemente grande, potrebbe esserci un ristorante.
Abbastanza grande? Per qualche istante mi sono dimenticato che qui siamo nella culla dell’esagerazione e infatti, appena varcata la soglia, constatiamo che il luogo assomiglia più ad una cittadina.


Il Miracle Mile Shops ci accoglie con un muro di aria fresca e cominciamo a guardarci in giro: non esagero dicendo che ci saranno almeno 200 esercizi commerciali, ma non è solo un insieme di negozi affiancati, ci sono costruzioni a due piani che talvolta richiamano gli edifici coloniali messicani o del sud della California, colori sgargianti e illuminazione abbondante, colorata e ben curata.
Poi, mentre camminiamo, guardiamo in alto e vediamo qualche nuvoletta in cielo, però poco fa fuori era tutto sereno e anche più chiaro….
Ci vuole qualche istante per capire che il cielo che vediamo è artefatto e ce lo conferma il fatto che le presunte nuvole cambiano distanza mentre camminiamo.
Non comprendiamo bene se si tratta di un drappo appeso dipinto, di una proiezione di luci o entrambe le cose simultaneamente.
Poco più avanti vediamo la ricostruzione del fianco di una nave mercantile situata dietro ad alcuni negozi, poi una fontana e successivamente una pozza d’acqua nel cui fondo si vedono migliaia di monetine.



Luci variabili nascoste tra i finti scogli che la recingono, creano riflessi e giochi di colori sulla superficie dell’acqua e mentre guardiamo il laghetto sentiamo il ticchettio della pioggia sull’acqua.
Guardiamo “il cielo” che intanto si è fatto più scuro e capiamo che un impianto di pioggia artificiale, che peraltro non riusciamo a distinguere, fa cadere piccole gocce d’acqua nel laghetto mentre dalla sua superficie s’innalza un piccolo strato di nebbia generato artificialmente.







Qui dentro si potrebbero trascorrere delle mezze giornate alla volta, anche solo per curiosare nei negozi, ma noi siamo entrati alla ricerca di un locale per mangiare e, quando lo vediamo, decidiamo di entrare.
E’ un ristorante hawaiano; uova, carne, pollo, insalate, panini, patatine, pesce, verdura, formaggi, frutta, gelati, frappè, c’è tutto quanto serve, persino il caffè, anche se non il nostro espresso, ma quello americano, molto lungo, comunque buono se lo si accetta come “bevanda” servita nelle walky cup in quantità familiare. (Avete presente i caffè di Leroy Jethro Gibbs e Abby Sciuto, personaggi della serie di telefilm NCIS? Ecco, quello!)
Seduti al tavolo del ristorante qui nel Miracle Mile Shops di Las Vegas, durante la cena, è un buon momento per fare il punto della situazione: fino a questa mattina eravamo a Hollywood e ora eccoci qui a progettare nuovi percorsi.
Sono troppe le cose che vorremmo vedere in questi giorni, ma decidiamo che Las Vegas sarà il luogo dal quale ci sposteremo a raggiera, sarà la nostra base e, considerata la temperatura e il fatto che la città è particolarmente spettacolare di sera, durante il giorno visiteremo nuove mete.
Siamo soddisfatti, continuiamo la visita del centro e, poco prima di uscire, vediamo l’ingresso del casinò.
Macchinette di tutti i tipi coloratissime ed ammiccanti che ti invitano a sederti per tentare la fortuna.
Può essere un’esperienza anche questa, ma non ora, dobbiamo fare qualche cosa di più importante e necessario: andare a dormire :-)